20 Aprile 2015

Il genocidio degli Armeni

 

Il 24 aprile ricorre il centenario del genocidio degli armeni.
Abbiamo chiesto a Marcello Flores, che insegna Storia comparata nella Facoltà di Lettere dell’Università di Siena, di raccontare cosa avvenne 100 anni fa.

Il 24 maggio 1915, a quasi un anno dall’inizio della prima guerra mondiale, Francia, Gran Bretagna e Russia sottoscrivono una dichiarazione congiunta che condanna i massacri in corso in Anatolia e Cilicia da parte dello stato Ottomano contro gli armeni: “Di fronte a questo nuovo crimine della Turchia contro l’umanità e la civiltà i governi alleati avvisano la Sublime porta che riterranno personalmente responsabili tutti i membri del governo turco e i funzionari che avranno partecipato a questi massacri”.

È la prima volta che si parla di “crimini contro l’umanità”, anche se sono giorni che nei giornali d’Europa e d’America si succedono le notizie delle uccisioni in massa e delle deportazioni degli armeni nei territori dell’impero ottomano. Cosa sta succedendo in quel vasto paese che, a metà Ottocento, era stato chiamato «il malato d’Europa» e che da allora ha perduto praticamente tutti i territori europei di cui era in possesso? Quello che è in corso nell’impero ottomano è un genocidio, anche se dovranno passare trent’anni perché quel termine venga inventato e usato: e cioè la distruzione intenzionale di un gruppo etnico, nazionale o religioso, che si vuole cancellare in tutto o in parte dal consorzio umano.

Il genocidio è iniziato esattamente da un mese, da quando a Costantinopoli (Istanbul) sono stati arrestati centinaia di dirigenti politici armeni, leader della comunità, intellettuali, commercianti, uomini d’affari, giornalisti, studenti, funzionari pubblici, che verranno nella maggior parte assassinati nei giorni successivi. In realtà è già da un paio di mesi che si sono avute ripetute uccisioni di massa, espulsione dalle case e dai villaggi, requisizioni dei beni, arresti e violenze d’ogni genere.

Tra la fine di febbraio e di marzo del 1915, tuttavia, vi è stato un cambiamento, è accaduto qualcosa che ha trasformato assassinî sporadici e violenze sparse nell’attuazione di un progetto di annientamento di un popolo attraverso massacri, deportazioni, confisca di ogni bene: il Comitato centrale del partito al potere nell’impero ottomano – il Comitato Unione e Progresso – ha deciso di porre fine a quella che veniva chiamata la «questione armena».

Ai governatori delle province il ministro dell’Interno – Talât Paşa, l’uomo forte del regime – inoltra l’ordine di deportazione nei deserti della Siria e dell’Iraq, mentre i segretari locali del partito controllano che essa venga attuata e ne rendono conto a Talât. Un ruolo decisivo nel genocidio lo svolge l’Organizzazione speciale, un’unità paramilitare che era stata creata nel 1913, durante la seconda guerra balcanica, per neutralizzare i nemici «interni». Per portare a termine il genocidio l’Organizzazione speciale si serve, oltre che di fedeli membri del partito, di criminali che sono stato liberati dalle carceri e a cui è stata promessa la libertà se svolgeranno con efficacia gli ordini che sono loro trasmessi.

Per dare una parvenza legale e cercare di nascondere il suo vero obiettivo, il governo ottomano promulga due leggi «provvisorie»: il 27 maggio la legge di deportazione e il 10 giugno la legge di espropriazione e confisca. Le due leggi, combinate insieme, rendono chiaro il disegno di espellere – e non temporaneamente, come si presentano entrambi i decreti, ma definitivamente – gli armeni dalle zone del loro insediamento storico, sgomberando del tutto dalla loro presenza l’Anatolia orientale e la Cilicia.

Il processo di deportazione è accompagnato e intrecciato da violenze d’ogni tipo: assassinii, mutilazioni, stupri, rapimenti, torture, conversioni coatte, riduzione in schiavitù, furti e brutalità d’ogni genere. Le vittime sono uomini e donne, bambini e vecchi. A commettere queste violenze sono gli uomini dell’Organizzazione speciale, i gruppi paramilitari organizzati dal CUP, i soldati dell’esercito regolare, le bande di criminali liberati all’inizio del conflitto per compiere ogni sorta di violenza, membri di clan curdi o di altre popolazioni musulmane non turche (circassi, ceceni, tatari) che speravano di ottenere vantaggi materiali, riconoscimenti e garanzie da parte ottomana.

Gli armeni che sono sopravvissuti alle deportazioni e si ritrovano, nell’autunno 1915, insediati nei deserti della Siria, sono circa ottocentomila, poco più del 40% degli armeni che vivevano nell’impero ottomano. Altrettanti sono coloro che sono già stati uccisi o che sono morti nel corso delle deportazioni verso la fine del 1915, mentre se ne sono salvati, perché riusciti a fuggire o perché non erano stati deportati, circa in trecentomila.

Adesso, con l’attuazione della norma che impedisce agli armeni di superare il 10% della popolazione di ogni distretto, nel corso del 1916 ne vengono massacrati quasi mezzo milione, lasciando vivi non più di trecentomila armeni tra quanti erano giunti nei campi e vi si erano insediati al termine della deportazione.